LA LETTERA

LA LETTERA
di Luisanna Facchetti

La lana, cruda e ispida al tatto, sapeva di pecora. Una volta lavorata, sulla pelle pizzicava, lo avevo detto alla mamma. Ma per lei ogni rimostranza era un capriccio, e per la verità ero maestra nell'inventare sonori e plateali capricci. Spesso nemmeno io ne ricordavo esattamente l'origine: una volta innescato, il capriccio procedeva indipendente dalla mia volontà, sordo a minacce lusinghe o promesse. A casa nostra era comunque stabilita una regola fondamentale: i contenziosi si risolvevano nel privato. Al di fuori della famiglia ogni infantile bisogno doveva essere espresso sottovoce: non era permessa protesta di fronte ad adulti ed anziani. Ricordo esattamente quella sera perché dopo aver pianto, derisa dalle mie sorelle, per la maglia di lana, non avevo proprio voglia di andare.

Era buio e tutti si avviavano, chi con una lanterna chi con una candela in mano. Freddo, tanto freddo e scialli spessi, zoccoli e geloni. La stalla era tiepida ma puzzava. Le mie nuove amiche erano le figlie dell'ispettore del genio civile e vivevano in una grande casa costruita sulle chiuse, da cui si apriva un bacino d'acqua vivacissima di spuma bianca e verde. Un terrazzino in alto, una piccola torre. Una reggia. Loro facevano il bagno dentro la tinozza in cucina. Io in una tinozza nella stalla. Erano state loro a dirmi che puzzavo di stalla. Così si era aggiunto un motivo sacrosanto per non andare, ma non volevo dirlo. Tacevo, faccia gonfia e rossa di contrarietà e rabbia repressa.

Questo avrei voluto: andare a letto senza dover per forza cedere al sonno in mezzo a chiacchiere e fumo, accucciata in una di quelle sedie di tanti buchi e di poca paglia. Niente da fare, mia madre mi trascinò dentro con l'aria di chi non merita una fatica in più dopo una lunghissima giornata, le mie sorelle e le cugine erano già lì e avevano da poco iniziato il lavoro a ferri: calze grosse con il tallone in doppio filo. Dunque, come le altre sere mi sarei accontentata della compagnia dei bambini della mia età che già stavano armeggiando con una trottola sciancata. In me nessun interesse per la trottola.

La nonna, fazzoletto nero calato basso sulla fronte, a volte radunava i bambini per raccontare della letterina trovata per terra dal Gallo, che conteneva un rigoroso elenco di
invitati a Roma:
«Gallo castaldo, Gallina castaldina, Oca badessa, Anara contessa, Musso peton, Gato sgranfignon, Uselin dala gamba secca...».
I vari animali si facevano avanti per chiedere: - Posso vegner anca mi?
E il Gallo, solenne: - Se te si scrito nela letera.
Ripeteva i nomi: «Gallo castaldo...» terminando con: «Volpe no te cato».
La volpe si presentava, e ogni volta, il Gallo irremovibile: - No te cato.
Sicché la povera volpe mai riusciva a far parte della comitiva.
A Roma c'era il re, o ce n'erano due, una volta alcuni bambini si erano presi a botte per questo (Vittorio e Manuele?). Ancora non avevo deciso chi avesse ragione.

Ma quella sera la nonna era silenziosa, e forse un po' in ansia. Nessuno sembrò o volle accorgersi delle mie passate bizze e nessuno passò la mano sulla mia chioma selvaggia e
scura, eredità della nonna materna. Ricci indomabili e fieri. C'era attesa, e qualcuno disse che presto sarebbe arrivato.

Mi metto al mio solito posto, guardinga. L'atmosfera inquieta mi impedisce di iniziare qualsiasi gioco e allora sto in ascolto e colgo alcune frasi che passano da una bocca
all'altra. E vedo le sorelle e le cugine lasciare il lavoro e parlottare.
Smetto di frignare: ora sono soltanto desiderosa di capire.
Ecco una folata di freddo dalla porta, nel buio si distingue il movimento di un tabarro nero:
- Riverisco, signor Parroco.
- Sia lodato Gesù Cristo.
- Sempre sia lodato.
Tutti salutano e poi tacciono, gli si fa spazio vicino alla luce e gli si offre una sedia buona.
Si guarda intorno: in ogni ruga legge le sofferenze la fatica e i peccati di ciascuno e addita anche chi ha perso messa domenica scorsa. Ci sono la Rosetta e la Adele che spesso
portano ricotta e uova alla sua perpetua. Riconosce le altre che vede ogni mattina alla messa delle 6. Sa anche che la Lidia non va in chiesa, e lei ora è rannicchiata dietro la
mamma e le cugine, in un angolo che ritiene più buio.
Tra gli uomini il bestemmiatore, chi beve, chi non ce la fa a mantenere sette figli e chi non riesce a sposarsi: sono la sua gente.
Silenzio, solo i rumori noti delle code delle mucche, il crepitare della paglia.

Prende a dire che ha saputo di certe pratiche magiche che sono contrarie alla religione: chi va dai maghi deve aspettarsi un castigo divino. Parla di diavolo eternità e inferno. Lui è qui anche per ricordare che i buoni cristiani non fanno politica, ormai è di qualche anno il divieto, nessuno lo dimentica, vero?
E poi toglie di tasca una lettera. È di Mario e contiene la richiesta di leggerla a tutti durante il filò.

C'è stupore. Mario il sognatore, il buono. Mario di trent'anni e non ancora sposato. Mario che teneva sempre in tasca castagne secche da regalare ai bambini.
Il paese ha visto Mario vendere tutto, la povera casa, perfino letto materasso e comodino, il campo, vanga zappa e carretto e partire, senza una meta precisa che non fosse la Merica... senza sapere che distanza ci fosse da qui a là. Alla scuola comunale non lo aveva imparato perché il mappamondo di gesso era arrivato solo l'anno dopo che lui
aveva lasciato: due anni per imparare a leggere e scrivere sono sufficienti e un ragazzo di otto anni deve ormai saper fare le fascine di legna, zappare, accudire gli animali.

La voce del parroco è arrocchita e stanca, ma legge lentamente, per tutti.

Rosario, 17 agosto 1877
Mario scrive di tutto ciò che ha patito durante il viaggio, del mal di mare sul bastimento (il piroscafo promesso non è arrivato), del cibo scarso e cattivo, dei tanti soldi dati ai reclutatori. Dice anche delle nuvole di cavallette che devastano tutto, dei debiti contratti per comprare le zappe e le sementi, della nostalgia che stringe il cuore, della voglia di tornare e del timore di non farcela. Le donne non trovano lavoro, possono solo essere d'aiuto ai mariti in casa, perché a servizio dei ricchi ci sono già nere e indiane. Raccomanda di non andare ad affollare la fila dei tanti che sono partiti illudendosi di trovare chissà cosa, che c'è da lavorare duro «dalle stelle del mattino alle stelle della sera».

Gli uomini commentano piano, gli occhi vigili: c'è chi sente sbriciolarsi un sogno cullato con la moglie, chi si convince che è meglio qui a pane e cipolle ma vicini alla terra e alla gente di sempre.

Ora Mario si rivolge a Lidia. Le dice che la pensa continuamente e di resistere, di non dar retta ai pettegolezzi e di aspettarlo. Lavorerà duro e fra qualche anno potranno avere una nuova vita insieme.
La voce del parroco si fa un soffio, le persone sono imbarazzate.
Sanno tutti che Lidia la rossa ha tre maschi, figli di NN. Neanche a sua madre ha detto da dove sono venuti, perché le ore in campagna sono calde e lunghe e ci sono fienili e
cespugli e fossati a far da riparo agli incontri clandestini. Perfino l'ostetrica alla terza gravidanza l'aveva minacciata:
- Basta, la prossima volta ti arrangi...
Lidia esce dal buio, prende coraggio: - Non lo aspetterò.
Sua mamma si mette a piangere, quante volte lo ha fatto.
- Andrò in Merica con i miei figli. Da lui.

Una figura nera e curva si stacca dalle altre.
- Vi aspetto a santificare la festa.
- Riverisco signor Parroco.
È sempre più notte.
Qualcuno dice: - È Mario che deve tornare qui. Facciamolo tornare.
Iniziano ad andarsene per primi gli uomini.
Sulla sedia lasciata libera dal parroco vedo formarsi un monticello di centesimi e c'è anche qualche luccicante lira «per il piroscafo».

Io scivolo in grembo alla nonna mentre tutti i bambini si fanno intorno per la solita preghiera:

Croce santa croce degna
che 'l demonio no 'l me insegna
de la morte subitana
che 'l demonio no 'l me ingana
sia de note sia de dì
Spirito Santo sempre con mi.

Luisanna Facchetti


Questo racconto che è stato premiato mesi fa a Sospirolo (Belluno). Il tema del concorso era «Il filò». E vuole un po' riprendere le atmosfere antiche e contemporaneamente far riferimento alle distanze generate da tutte le migrazioni.

Luisanna Facchetti vive a Zevio (Vr). Dopo anni di insegnamento dell'Italiano agli stranieri segue ancora il percorso di alcuni ragazzi immigrati (istruzione-lavoro-casa). Legge, a volte scrive.

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